La luce utilizzata di norma in fotografia è la porzione di spettro elettromagnetico visibile all’occhio umano, i cui limiti sono posti convenzionalmente tra 400 e 700 nanometri di lunghezza d’onda.
In natura il concetto di luce visibile è piuttosto relativo: alcuni animali, infatti, sono sensibili agli infrarossi (come i serpenti), mentre certi insetti (farfalle e api) lo sono alla luce ultravioletta.
Con l’attrezzatura adeguata anche per un fotografo è possibile spingersi oltre i limiti del visibile. In un articolo di qualche anno fa (https://circolofotografico.wordpress.com/2015/09/13/fotografare-linvisibile/) ho accennato alla mia esperienza con la fotografia nell’infrarosso, nel presente mi soffermerò invece su quella nell’ultravioletto. Si tratta di un ambito spesso associato nell’immaginario collettivo alle fotografie delle scene dei crimini. Indubbiamente offre una visione della realtà diversa da qualsiasi altro tipo di ripresa fotografica.
Cosa s’intende esattamente con “ultravioletto”? Cosa lo differenzia dall’infrarosso? Che caratteristiche presentano le fotografie ottenute con questa luce? Che cosa occorre, infine, per realizzarle?
Sono alcune delle domande cui cercherò di dare una risposta rimandando, per una trattazione più completa, ai testi e agli articoli citati in bibliografia e in sitografia.
Lo spettro della radiazione solare è composto da onde corte, luce visibile e onde lunghe.
Sotto i 400 nm e fino a circa 10 nm si ha l’ultravioletto (d’ora in poi UV), suddiviso in UV vicino (o prossimo, fino a 200 nm) e UV estremo (fino a 10 nm). I suoi effetti negativi sulla salute umana (tra gli altri la dermatoeliosi o invecchiamento della pelle) come quelli positivi (induzione della produzione di vitamina D) sono noti. A lunghezze d’onda inferiori a 10 nm corrispondono invece raggi X e raggi gamma.
Lunghezze d’onda maggiori di 700 nm e fino a 1 mm appartengono all’infrarosso (d’ora in poi IR), lunghezze superiori alle onde radio.
Raggi luminosi di lunghezza d’onda più corta hanno un comportamento per certi aspetti diametralmente opposto rispetto al rosso e ai raggi infrarossi. Mentre i primi sono deviati facilmente dal pulviscolo atmosferico (il cielo limpido presenta il colore blu perché queste onde raggiungono i nostri occhi da tutte le parti del cielo), le seconde sono meno soggette alla diffusione e mantengono per la maggior parte una traiettoria rettilinea (il tramonto appare rosso perché una parte dei raggi rossi sono diretti verso l’osservatore). Come vedremo queste caratteristiche si rispecchiano direttamente nella fotografia della luce “invisibile”.
Escludendo completamente la luce visibile le foto, dopo il corretto bilanciamento del bianco (supponendo di scattare in formato RAW per “sviluppare” in seguito l’immagine), appaiono solitamente monocromatiche: la presenza di aree molto chiare o molto scure è determinata rispettivamente dalla riflessione o dall’assorbimento dei raggi luminosi.
Esiste, è vero, la fotografia in IR a “falsi colori”, ma essa deriva la sua peculiarità dalla combinazione di due fattori: l’utilizzo di filtri a taglio “basso”, che includono cioè parte dello spettro visibile, e la presenza, davanti al sensore, di una matrice di filtri colore, solitamente lo schema Bayer. Quest’ultima, a causa della mescolanza visibile – invisibile va a differenziare i livelli di luminosità dei tre canali R-G-B (rosso, verde, blu) attraverso i quali sono acquisite le immagini. Nelle foto monocromatiche, infatti, i livelli sono identici per tutti e tre i canali.
Fatte queste precisazioni, vediamo subito alcune conseguenze derivanti dal comportamento descritto nel precedente paragrafo.
Le ultime due immagini esemplificano ulteriormente gli aspetti della ripresa in IR e UV fin qui esaminati. Da notare come il Pasubio scompaia letteralmente in UV, mentre in IR i dettagli del paesaggio appaiono persino più nitidi della foto in luce visibile. Inoltre le ombre hanno un aspetto decisamente più marcato.
La pelle è piuttosto trasparente alla radiazione infrarossa: infatti risulta molto chiara e levigata al contrario dell’UV (quest’ultimo è utilizzato in dermatologia proprio per registrare e misurare lo stato di salute della pelle)
Testo e foto di Andrea Tessaro
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