Quando si guarda dall’aereo si vede un paesaggio di campi non molto grandi, recintati o comunque delimitati e tutti con un puntino nero al loro interno, sembrano alberi ma non lo sono.
Stiamo arrivando nella piana attorno a Keng Tung, nella parte orientale del Myanmar (Birmania) lì dove la Birmania ha una protuberanza che si incunea in un groviglio di stati: Cina, Laos e Cambogia. Zona montagnosa, Keng Tung si trova a 800 m slm ma il clima è caldo, data la vicinanza all’equatore (21° N).
Il paesaggio si svela a terra: una piana valliva fatta di risaie. In novembre il raccolto è finito, e quelli che sembrano campi delimitati sono delle piane dai bordi rialzati in modo da poter contenere l’acqua, quando sarà il momento di allagarle.
In alcuni campi restano dei cumuli di piante di riso già essiccate. Famiglie intere sono venute giù dai villaggi montani per la trebbiatura a mano del riso: i fusti vengono sbattuti su un’asse e i chicchi dorati saltano sulla stuoia per poter poi essere raccolti. A sera torneranno tutti a casa tra le montagne.
La paglia, raccolta in cumuli, verrà in seguito incendiata dando luogo ai puntini neri che vedevamo dall’aereo, uno per ogni campo.
Abbandoniamo la stretta strada asfaltata e scegliamo una strada bianca, abbastanza dissestata da costringerci ad andare a passo d’uomo. Questo sarà uno degli ultimi villaggi raggiungibile in auto, dopo di che sarà possibile muoversi solo a piedi.
Capanne con il tetto di paglia, palafitte.
Donne affollate sotto una tettoia, chi tesse, chi ricama mentre i bambini giocano in una affollata confusione.
Si dice che questo vecchio abbia cento anni ma dato che qui le nascite non si registrano neppure oggi nessuno sa se la cifra sia esatta. Ha la pelle colore della terra, non ci vede e non riesce a camminare, eppure lavora. Come tutti i birmani resta accovacciato a terra, si muove lentamente, sposta, riordina, scava con una canna di bambù; ha un’attività incessante ma è difficile capire lo scopo di tutto questo movimento.
Ed ecco un altro villaggio, questo ha botteghe che sono il punto di scambio tra i villaggi e la città. Qui vengono le tribù delle montagne a fare acquisti. Il piccolo bazar ha cose molto buffe: chiodi sfusi pesati su una bilancia, corde costruite intrecciando strisce di sacchetti di plastica, campanacci fatti artigianalmente con un legnetto per batocchio…
La signora che ci viene incontro è vestita da festa: ha una fila di collane, una cuffia nera addobbata con sfere metalliche e monete d’argento e … i denti neri.
Guardiamo la guida.
Immagino che questo debba spiegare tutto anche se non si capisce come solo alcune si tingano i denti, ipotizzo che le generazioni più moderne si siano distaccate da questa abitudine.
“Sono degli Akha” aggiunge la guida “black teeth“. L’etnia dominante di questa regione è costituita dagli Shan, ma esistono decine e decine di culture diverse dove si mischiano lingue e dialetti che un birmano non riesce a capire, per questo abbiamo bisogno di Chen, nato da queste parti, mezzo cambogiano mezzo birmano.
Anche se abbiamo veduto qualche motocicletta, la gente si muove a piedi sempre con l’ombrello o perlomeno un cappello a falde. Le donne hanno un sacchetto sulla schiena fissata a un nastro che si pongono sulla fronte, gli uomini hanno attrezzi da lavoro.
A mezzogiorno incrociamo l’uscita dalla scuola locale. Diciamolo pure: a quell’età tutti i bimbi del mondo si somigliano.
Qui i campi sono in lavorazione, laggiù stanno arando e alcuni campi sono già stati allagati perché qui il riso dà due raccolti all’anno, nei posti più fertili perfino tre. Hanno piantato il riso e le piantine verranno poi trapiantate e tutto il paesaggio sembrerà allagato.
La strada non è mai deserta, ogni tanto un villaggio entro la valle ogni tanto una madre (potrebbe avere 17 anni), i capelli avvolti sul capo e fermati da un pettine, orecchini, ai piedi le immancabili infradito; ha il fagotto sulla schiena e un bimbo a fianco. Stupisce come il colore della pelle e quello della terra siano tonalità poco diverse di ocra.
Le case sono su palafitte, sotto razzolano neri maiali, cani pacifici e galline. Al nostro arrivo una bambina nuda si allarma, comincia a piangere e si aggrappa alla gonna della madre, si calmerà solo quando la madre si scoprirà il seno per allattarla.
La trattativa si fa con il capofamiglia, l’uomo, l’unico uomo del villaggio, ma poi costui tacerà tutto il tempo e protagoniste saranno le donne.
Anche queste hanno i denti neri, ma sono di etnia Ehn.
I mariti sono a lavorare chissà dove, intanto le donne stanno qui a fare figli e produrre piccoli oggetti di artigianato. Ci sono i turisti e bisogna approfittarne. Tirano fuori il frutto del loro lavoro: i neri tessuti tipici della tribù Akha, collanine, braccialetti, giacche ricamate, sciarpe, scialli, copricapi; chissà cosa potrà piacere alle donne dalla pelle così chiara.
Una ha avuto nove figli, una otto, solo la più giovane ne dichiara uno quasi con riserbo.
La capanna è un unico stanzone dove stanno tutti. Ha pavimento di legno, pareti di assi e tetto di lamiera (perché è moderna, le altre hanno tetti di foglie di palma), l’aria circola liberamente. L’arredo è esenziale, le cose sono accatastate a pavimento o appese.
Come in tutto l’oriente non servono tavoli o sedie, ci si siede a terra o si sta accovacciati sulle caviglie.
La cucina non ha cappa, il fumo esce da tetto e pareti, il fuoco è alimentato dalla legna e il fornello è un semplice treppiede di ferro.
Un cucciolo di cane gironzola per casa, “aiuta a tenere pulito” ci dice la guida e comunque quello che cade sotto non verrà sprecato.
Testo e foto di Renzo Priante