Il mio primo approccio alla foto digitale avvenne tardi, nel 2010, più per necessità che per libera scelta.
Con l’avanzare dell’età mi era diventato troppo faticoso portare in spalla la mia vecchia Canon Eos, corredata di zoom, grandangolo, ottica media, scorta di rullini. Il passaggio al digitale avvenne in vista di un tanto sognato viaggio in Mali: vasto ed affascinante paese sub-sahariano attraversato dal fiume Niger.
Per 30€ entrai in possesso di una fotocamera compatta digitale Canon, usata e con ottica corta (PowerShot A75 – 3,2 mega pixels), con cui documentai quel mio indimenticabile viaggio.
caotica capitale maliana, visitai la surreale città di Djennè con la sua fantasiosa architettura di fango e la sua magica grande moschea, attorno a cui si svolge il tipico mercato settimanale.
Sperimentai poi per tre giorni la navigazione in piroga sul fiume Niger, scomoda e lenta, ma imperdibile, con numerose soste ai poveri villaggi di capanne dell’etnia dei pescatori-allevatori Bozo. Anche l’accamparsi in tenda lungo le rive del Niger mi offerse l’occasione di incontri inimmaginabili, vivendo quasi in assenza di tempo.
L’ascesa alla falesia dei Dogon si rivelò piuttosto impegnativa. Inerpicarsi sui sentieri scoscesi, per visitare i vari villaggi, fa comprendere la fatica e l’ingegnosità necessarie per adattarsi a questo ambiente così ostile. Questo isolamento dei Dogon ha permesso loro di mantenere integra la cultura tradizionale, che si evidenzia soprattutto nella tipologia edilizia, nella scultura e nella ritualità religiosa.
Infine la
ai margini del Sahara, mi si presentò polverosa e assolata, con i suoi edifici di sabbia, che invade anche le strette viuzze deserte. Timbuctù fu meta e punto di partenza delle ultime rotte carovaniere, oggi percorse più dalle jeep del terrorismo islamico che dalle carovane beduine a dorso di dromedari. (24-29 )
Fui incantata di fronte a tanta bellezza di ambienti e di culture sconosciute, di volti e di occhi che mi seguivano rassicuranti.
Non disponevo però di zoom per “rubare foto” né per carpire sguardi all’insaputa dei soggetti fotografati né per documentare, non vista, situazioni di vita al limite dell’umano.
Non mi restò dunque altro da fare che tuffarmi nella folla multicolore, accucciarmi davanti a persone che accettavano pazientemente di incrociare i loro occhi con il mio obiettivo. (39-41)
Nella maggior parte dei casi il “Mali”, pur nella sua faticosa e sofferta quotidianità, non si è sottratto al mio invadente e fugace passaggio, non mi ha chiesto perché fossi lì né che senso avesse quel mio frugare nel suo spazio personale. Mi ha spesso accolto con un sorriso; si è fermato un istante e mi ha offerto la sua umanità disarmata.
Testo e fotografie di Giuliana Conchi