Non era ancora esplosa la moda dei selfie e neppure se ne conosceva il nome. In Italia si chiamavano autoritratti e per ottenerli bisognava avere il cavalletto, impostare l’autoscatto e poi correre a mettersi in posa.
La maggior parte delle persone molto semplicemente ti fermava per strada e ti domandava “mi scatta una foto?” mettendoti in mano la macchina fotografica, poi si metteva davanti al monumento e indossava il più bel sorriso.
Ma allora c’erano le macchine fotografiche a pellicola, la più leggera era più pesante di qualunque telefonino e se chi scattava faceva la foto mossa il malcapitato se ne accorgeva un mese dopo, magari dopo che se n’era ritornato in Australia.
Il ritratto è un genere dei più antichi della fotografia, in questo sostituiva il ritratto sotto forma di pittura. L’idea di rappresentare la complessità di una persona in una sola immagine affascina. Talvolta il ritratto è pulito, su sfondo neutro, si concentra sugli occhi, sul volto, può rappresentare fierezza, alterigia, sicurezza, vanità, bellezza, …
Nel ritratto possono trovare posto gli oggetti che meglio caratterizzano ogni persona, un libro se si tratta di un letterato o un pennello per un pittore magari rappresentato nel suo studio davanti alle sue opere e ai suoi strumenti di lavoro. Si tratta di ritratti ambientati dove la/le persona/e vengono ritratte nell’ambiente che meglio le descrive.
Nel lontano 2001, all’alba del terzo millennio quando ancora si pagava in lire e il rullino doveva essere inserito nella macchina in un ambiente poco luminoso, a noi del Circolo Fotografico Scledense venne l’idea di un ritratto collettivo, un ritratto di massa che prese il nome di …
In una fine settimana di settembre dell’ormai lontano 2001, gli scledensi furono invitati a farsi fotografare presso una delle molte postazioni fotografiche allestite in centro. I volti più noti della città ricevettero un invito personale: la partecipazione superò ogni aspettativa.
La voglia di essere immortalati in uno scatto fu segnale (col senno di poi) del fenomeno odierno dei selfie. L’iniziativa si protrasse fino alla primavera 2002, proseguendo a fotografare individualmente altre persone. Io partecipai soprattutto a questa seconda fase, divertendomi a proporre a chi conoscevo o al passante occasionale questo gioco di sguardi reciproci: il mio occhio fotografico entrava in contatto con lo sguardo del soggetto fotografato, che si offriva divertito, talvolta autoironico, al mio intento di farne una “faccia”, la “faccia di Schio”.
I protagonisti delle mie foto vengono oggi a costituire un’istantanea di uno spaccato sociale ed economico della Schio di quegli anni, quasi un topos rappresentativo di una categoria: il Farmacista e la Suora, il Macellaio e l’Artista, il Commerciante e l’Operaia, l’Artigiana e il Politico, l’Agricoltore e il Passante…
Il risultato collettivo del lavoro del Circolo Fotografico fu una ricca rassegna di volti, riprodotti in diapositiva colore o in bianco e nero, a cui seguì la cosiddetta “restituzione al sociale”: proiezioni e serate aperte al pubblico, mostre, collage di “facce” comparse sulla copertina di “Numero Unico”, pubblicazione annuale a cura della Tipografia Menin.
Testo e foto di Giuliana Conchi
PS. Tutte le persone ritratte hanno firmato una liberatoria per la pubblicazione delle foto. Se qualcuno ci avesse ripensato, ci scriva.