“Còpete sèto” che significa “attento a non farti male“.
Queste parole di Luigi Meneghello mi hanno sempre fatto sorridere per come un verbo che vuol dire “ammàzzati” (còpete) sia usato per significare l’opposto. Perfino la bestemmia, intercalare un tempo diffusissimo, ha un significato completamente diverso da quello letterale.
All’osteria come in piazza condire la frase con un sonoro “∫ìo càn” ha un uso affermativo e rafforzativo e quelle due parole stanno per “sono sicuro di quello che ho detto“. E’ sempre Meneghello che lo afferma.
O almeno molti di noi lo sono e ci portiamo dentro la lingua colta, l’italiano, assieme alla lingua madre, il dialetto. E’ facile passare dall’una all’altra ma non sempre è possibile e il dialetto riserva termini intraducibili:
Non riconoscete alcuni di questi termini? Nessun problema, il dialetto ha nicchie linguistiche e quello che non si è mai sentito nella valle dell’Agno compare improvvisamente nelle frasi sentite a Piovene o Breganze. Ognuno di noi potrebbe aggiungerne per pagine e pagine.
Sta nei suoi accenti, nella declinazione locale di termini e modi di dire. Troverete dizionari dialettali diversi ed ognuno con qualche differenza rispetto al vostro dialetto (1).
Attenti però a non voler trasformare il dialetto in lingua. Ci hanno provato in Friuli qualche anno fa, ma i primi a insorgere sono stati proprio i poeti dialettali che si sono visti proporre/imporre una specie di esperanto del friulano dove i termini e la parlata di una singola zona andava a impoverire le diversità di tutti le altre declinazioni locali.
Come se volessero proporci di usare “cèo” per indicare quello che noi chiamiamo “putèo” e a Verona “butelèto“. Nella valle dell’Agno, ma anche a Posina, si usa domé, mai sentito nella valle del Leogra, ecc
Insomma lasciamo l’italiano come lingua unificatrice (chi si fiderebbe di una compravendita con beni usucapiti e diritti di passaggio scritta in friuliano, in bergamasco o anche solo in dialetto veneto?) e coltiviamo il dialetto che ci sembra più nostro in quanto è diverso dagli altri, anche se di poco.
E’ uno spettacolo sul dialetto tenutosi a Palazzo Toaldi Capra Venerdì 8 luglio. Spettacolo veramente piacevole. Un passo indietro nel tempo, che per i non più giovani, ha fatto ritornare alla memoria frasi dielattali in uso all’ inizio del secolo e fino agli anni ’60.
Con la parola inizia la storia dell’umanità. La parola, che da piccini ci è stata donata dalla mamma con le ninna nanne o con le filastrocche, l’abbiamo poi usata per capire com’è fatto il mondo e poi ancora per cercare di spiegare ad altri e a noi il mondo. Qualcuno l’ha pure usata e la usa per convincere, altri per sedurre, alcuni per divertire, altri per emozionare, alcuni per ferire, altri per curare. La parola comunque è lì per permetterci di comunicare.
Il dialetto, l’amalgama dei sentimenti, in questo incontroscontro con la “lingua” ha sempre prodotto e produce tuttora miscele alle volte così esplosive che possono sconfinare con la comicità più scatenata ma spesso anche con l’arte, a volte anche con l’arte altissima della poesia.
Lo spettacolo è un allegro viaggio nei ricordi d’infanzia, e non solo, dell’attore/autore, delle tragicomiche esperienze del suo primo rapporto con la lingua italiana – e più tardi con altre lingue che ha affrontato – la divertente storia di un tale che cresciuto col dialetto veneto ha dovuto fare i conti nel bene e nel male con la lingua.
(1) Volete divertirvi a cercare dizionari dialettali? Eccone una piccola rassegna
Le fotografie sono di Simone Gottardi
Grazie per questo bel articolo che trasmette la passione di quella serata.
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